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Disuguaglianze di salute

L’esperienza di “Una comunità che si prende cura”

Tempo di lettura: 10 minuti

L’AssociazioneLa Bottega del Possibile” sta sperimentando dal 2016 a Piossasco, insieme ai partner del territorio, nuovi percorsi e luoghi di cura, interventi e servizi di sostegno alla domiciliarità per la popolazione anziana, attraverso l’integrazione tra i Servizi Sociali e Sanitari, tra soggetti pubblici e del privato sociale e tra differenti professioni.

Tramite l’attivazione di processi partecipativi, si sperimentano nuove modalità per dare impulso a una comunità coesa, solidale e responsabile, capace di promuovere benessere individuale e sociale. Piossasco è una cittadina in periferia di Torino con poco più di 18.000 abitanti. Si presenta come una realtà vivace grazie alla presenza di un tessuto associativo attivo in vari settori, capitale sociale ricco ma poco in rete, secondo le parole dei responsabili dei servizi e degli stessi volontari.

Da un’analisi preliminare del contesto emergeva, tra i diversi aspetti, una criticità relativa alla difficoltà a fornire risposte adeguate e tempestive in favore di persone anziane che vivono in una condizione di fragilità o di totale o parziale non-autosufficienza. L’attuale carenza di risorse, infatti, determina lunghi tempi di attesa e la conseguente necessità di attivare delle liste per gli inserimenti residenziali, semiresidenziali e domiciliari. Interrogandosi su queste criticità, si è quindi tentato di elaborare nuove modalità del prendersi cura della popolazione anziana; a fronte di un numero molto limitato di anziani seguiti dai Servizi Sociali (dai dati riferiti dal C.I.diS, rispetto al Comune di Piossasco, nel 2016, risultavano in carico 36 persone), grazie al progetto sono stati contattati durante le visite domiciliari, più di 550 anziani, elaborando per loro percorsi personalizzati condivisi. Attraverso le attività sviluppate sul territorio e all’interno della RSA, si è cominciato ad offrire nuove possibilità alle persone anziane e ai propri caregiver: nuovi supporti, servizi e interventi, occasioni di contrasto alla solitudine, e di possibilità di continuare a rimanere a casa propria, ampliando così l’offerta e la capacità del sistema territoriale di rispondere ai bisogni presenti e a quelli non ancora rilevati da parte del sistema dei Servizi pubblici. La partecipazione è stata rilevante: oltre il 70% degli anziani incontrati è stato coinvolto in azioni di supporto a domicilio o in RSA, in momenti di socializzazione e prevenzione, e alcuni di essi sono divenuti volontari attivi del progetto (11 i camminatori esperti che guidano i gruppi di cammino e in totale 50 i volontari che supportano le diverse attività messe in campo dal progetto).

Il modello che si è cercato di perseguire è quello delle “Cure Integrate di Comunità”: approccio che punta a favorire l’empowerment e il coinvolgimento delle persone nella co-produzione di azioni basate sul curare e prendersi cura, nel quadro di partenariati intersettoriali e interprofessionali. Obiettivo di tali collaborazioni è migliorare la qualità delle azioni di cura, capaci di innalzare/mantenere livelli di qualità della vita delle persone fragili e di ben-essere più generale della comunità. In questo quadro il sostegno alla domiciliarità rappresenta un riferimento essenziale ed importante per una visione della cura delle persone e del loro Intorno; un grimaldello per ripensare in termini diversi i rapporti tra persone/ servizi tra territorio/governance locale; la possibile chiave per riportare la persona al centro di ogni politica, per porre al centro il ben-essere delle persone con il loro vivere e abitare.

La governace del progetto vede una cabina di regia costituita dalla rete dei soggetti partner e una micro-equipe multi professionale (infermiera, OSS, educatrice, Assistente Sociale, Psicologa) sul territorio, il cui compito e intervento non è solo quello a carattere prestazionale, ma soprattutto quello di sviluppare un lavoro in rete e di rete e di agire sulle risorse e sui desideri delle persone, per non restare confinati solo sui bisogni. Sconfinare, riposizionare il proprio ruolo e profilo per Andare Verso le persone, è quanto viene a loro richiesto, utilizzando e rilanciando come pratica la visita domiciliare strutturata e programmata. Non contingentata dal minutaggio, la visita domiciliare, è un’azione di ascolto, osservazione, informazione e orientamento, di vicinanza, di prossimità, di supporto e di accompagnamento. L’azione strutturata di ascolto a più di 550 anziani ha permesso alla microequipe multi professionale di mettere in campo azioni mirate e di uscire da una logica prestazionale e frontale per assumere quella più laterale e di visione bio-psico-sociale in cui si intersecano una molteplicità di “offerte” a più livelli: sanitario, psicologico, sociale e comunitario: dal gruppo di cammino, al volontariato, alla tombolata, alla visita infermieristica, il pasto o la fisioterapia a domicilio, all’intervista dei bimbi ai nonni, ecc.; tutte personalizzate sulle esigenze, competenze e risorse delle persone e delle loro reti sociali e in integrazione con le risorse della comunità (associazioni, cittadini, luoghi e servizi).

Posizionarsi su questo orientamento, consente ai servizi e agli operatori di «uscire dal proprio fortino» per incontrare le persone nel loro contesto di vita. Andare Verso le persone e non solo attendere che siano loro a rivolgersi a un servizio, consente di “raggiungere gli irraggiungibili”, di prevenire i rischi legati alla fragilità e offrire opportunità di azioni volte alla promozione della salute a una gamma molto più grande di popolazione. Si svolge quindi, fuori dall’ambito dei setting dei servizi e degli ambulatori, spostando il focus dell’agire sul territorio, coinvolgendo le persone in una pluralità di iniziative e luoghi.

L’intera partnership è impegnata a sperimentare nuovi percorsi e luoghi di cura, trasformando l’RSA in un Centro Servizi e luogo di socializzazione e di incontro, valorizzando e utilizzando gli spazi pubblici, dalla bocciofila alla biblioteca, per promuovere salute e ben-essere nei contesti di vita comunitaria.

Gli operatori sono attivatori di processi, di nuova partecipazione, di cittadinanza attiva; agendo insieme, sperimentano un riposizionamento professionale, la contaminazione dei rispettivi saperi. Valorizzano le risorse e le capacità dei singoli, promuovono la partecipazione attiva in tutti i casi in cui sia realisticamente praticabile. Coinvolgono le persone affinché possano mettere a servizio degli altri le proprie competenze e il loro tempo libero, promuovendo così nuova cittadinanza attiva, nuovo capitale sociale. Gli operatori sono nodi di una rete che richiede cura, richiede di impegnare parte del proprio tempo a questa “manutenzione” che è anche fatica, a volte conflitto, mediazione e dialogo.

Lavoro in rete e di rete, quindi, volto anche a provare a rendere meno soli coloro che non hanno rete e supporti, che si sono ritirati nella propria casa, che rischia di essere una nuova forma di istituzionalizzazione, specie per gli anziani, la cui solitudine, connessa anche ad ansia e depressione è una delle problematiche più rilevanti, così come emerge anche dall’analisi della fotografia dei dati raccolti durante le visite domiciliari.

Un modello di valutazione partecipativo

Il processo di valutazione del progetto è stato organizzato seguendo l’approccio della cosiddetta empowerment evaluation che, come chiariscono Fetterman e Wandersman (2007, 2011), si propone di mettere le persone in condizione di aiutare se stesse e di essere in grado di sviluppare programmi usando una forma di auto-valutazione e riflessione. L’obiettivo è quello di capire ciò che ha funzionato secondo la prospettiva dei partecipanti per poi procedere allo sviluppo degli interventi e delle azioni previste. Ogni azione è stata quindi monitorata dalla cabina di regia, attraverso un metodo partecipativo che ha coinvolto tutti i partner, durante le riunioni periodiche e le interviste individuali in cui sono stati analizzati i dati raccolti e i punti di forza e criticità nella loro evoluzione nel tempo. I 10 principi su cui si basa il modello dell’empowerment evaluation sono: 1. Miglioramento; 2. Comunità come soggetto attivo; 3. Inclusione; 4. Partecipazione democratica; 5. Giustizia sociale; 6. Conoscenza della comunità; 7. Strategie basate sull’evidenza; 8. Sviluppo delle capacità; 9. Apprendimento organizzativo; 10. Responsabilità. Principi che ci sono apparsi in linea con i nostri obiettivi e modelli di riferimento.

Per la raccolta dei dati ci siamo avvalsi di 3 interviste strutturate rivolte agli anziani durante le viste domiciliari per una valutazione ex-ante, in itinere ed ex-post, con utilizzo di scale validate a livello internazionale e nazionale volte a valutare il rischio di fragilità, l’autonomia, la qualità della vita percepita, oltre che i bisogni i desideri, la rete sociale e il rapporto con il proprio territorio. I dati rilevati alla prima e seconda visita hanno offerto una fotografia della popolazione su cui poi sono state strutturate le azioni e i percorsi individuali e di gruppo.

Sono stati inoltre predisposte interviste semi-strutturate e focus group volti a facilitare il processo di empowerment evaluation, dando voce ai protagonisti del progetto: beneficiari, operatori, volontari e stakeholeder, compresi i partecipanti della cabina di regia, in modo da attivare un dialogo a più voci. Nello specifico, la prima fase del progetto ha visto lo svolgersi di due focus group con la microequipe e i camminatori esperti; 14 interviste individuali con beneficiari e stakeholder; 6 incontri formativi con operatori e volontari come momenti di ascolto e condivisione secondo una modalità di ricerca-azione. Tali strumenti sono stati utilizzati per un approfondimento qualitativo rispetto ai percorsi individuali e collettivi attivati, relativamente ai punti di forza e criticità del progetto. Inoltre hanno avuto lo scopo di contribuire a una meta-riflessione sull’iniziativa e sul ruolo di ciascun partecipante, in un’ottica di progettazione partecipata rispetto ai cambiamenti e alla sostenibilità futura.

La valutazione di processo ha permesso quindi di monitorare in corso d’opera le attività implementate, mentre la valutazione di esito ha consentito di verificare se gli obiettivi di progetto sono stati raggiunti, quali cambiamenti hanno attivato (impatto) e quali punti di forza e criticità sono emersi, in modo da evidenziare anche gli aspetti innovativi, le modifiche da apportare e gli sviluppi futuri. La valutazione di impatto sulla qualità della vita e la fragilità delle persone anziane coinvolte verrà completata con la rilevazione ex post a due anni dall’avvio delle azioni progettuali.

Dal report di valutazione della prima fase del progetto (ottobre 2016-marzo 2018) emerge come il percorso di valutazione sia stato un’importante occasione di condivisione e partecipazione, a volte faticoso e limitato dalle tempistiche progettuali che richiedevano un tentativo continuo di aggiornare i dati e le analisi, necessitando di dedicare tempo prezioso per lo scambio e la riflessione.

La valutazione ha suscitato molto interesse e aspettative, in quanto feedback delle azioni messe in campo, oltre che spunto per le riflessioni sul futuro, anche a partire dalla “fotografia” della popolazione incontrata. Il quadro emerso ci racconta che l’esperienza di Piossasco rappresenta per i beneficiari e gli stakeholder interni ed esterni, un progetto innovativo di supporto alla domiciliarità, sperimentando un sistema “Altro” del prendersi cura. Il modello è visto come innovativo in quanto promuove un intervento non caratterizzato da logiche prestazionali, ma centrato sull’ascolto e sulla relazione di aiuto, restituendo centralità alla persona, ai suoi bisogni e ai suoi desideri. Uno dei risultati più importanti è stato aver incontrato, con almeno una visita domiciliare, più di 550 persone, a fronte di 36 persone seguite dai servizi con interventi domiciliari. Visita domiciliare che ha fatto emergere un alto grado di fragilità, espressa in termini fisiologici, psicologici e sociali. In particolare, è emersa la rilevanza delle problematiche di solitudine emotiva e relazionale, connessa con preoccupanti percentuali relative ai vissuti di ansia e depressione. Riprendendo le parole di un’operatrice itinerante: Quanti lamenti e pianti e quante solitudini abbiamo trovato. Diamo una risposta a queste solitudini!”. Un invito e un’esortazione anche per la seconda fase del progetto, che sta cercando di incrementare le azioni in quest’ambito per le persone più fragili. L’attivazione di interventi che promuovessero relazioni è diventato quindi un approccio di base (dove anche il gruppo di cammino, oltre alle valenze di salute fisica, è un “comunicare camminando” riprendendo l’espressione di una volontaria; dove il laboratorio delle orecchiette è occasione di amicizia e auto aiuto, ecc.)

La centralità degli aspetti relazionali bene emerge dalle metafore degli intervistati che ci raccontano di un progetto il cui valore sta nell’attivazione delle relazioni di accoglienza, appoggio, riconoscimento, attenzione, collaborazione; relazioni che hanno come luogo la comunità, vista come soggetto attivo nella promozione di reti solidali. Una comunità che diventa “curante”, promuovendo benessere e capitale sociale, soprattutto per quella fascia di popolazione più fragile. Attraverso le interviste e le visite domiciliari si è riusciti a cogliere “la globalità della persona”, intervenendo su più piani. Si è passati da una logica iniziale e abituale “a prestazioni” a una messa in gioco del proprio ruolo professionale, dove anche “la chiacchiera e il caffè insieme” possono essere terapeutici. Gli operatori sono quindi riusciti, non senza fatiche, a passare da una visione centrata sulla malattia e sui sintomi a una visione dove centrale diventa la relazione e l’ascolto dei bisogni e delle richieste. Da questo ascolto sono scaturiti anche risultati inattesi, quali quello dei gruppi di cammino, la promozione di volontariato civico, che hanno rappresentato un “valore aggiunto” per il progetto e per i suoi sviluppi.

Rispetto alla RSA, come centro servizi per la comunità, è da rimarcare il passaggio da una rappresentazione culturale come “strutture senz’anima”, “luogo triste del fine vita” a un nuovo modo di vivere e rappresentarsi la struttura, come “punto di appoggio”, “nodo centrale della rete dei servizi”, e anche “luogo di cultura e promozione del volontariato”. Molto efficaci, anche a tale scopo, sono stati i laboratori svolti al suo interno (tombola, gioco delle carte, mercatini, ginnastica, ecc.) e gli incontri con le scuole, volti a favorire uno scambio tra generazioni, per aprire le porte del Presidio San Giacomo ai più piccoli e alle loro famiglie. La performance di massa (che ha coinvolto più di 200 persone tra alunni, insegnanti, genitori e ospiti della RSA) ha rappresentato il culmine di questi percorsi. Definita “straordinaria”, perché ha smosso rappresentazioni, emozioni e persone in un incontro collettivo che ha lasciato “un segno profondo nella comunità”.

Uno dei risultati più importanti è stato, come ricordato sopra, l’attivazione di un processo partecipativo, coinvolgendo un numero significativo di persone in attività di socializzazione e di volontariato, favorendo così la costruzione di reti di solidarietà e di prossimità. Le attività proposte hanno consentito di realizzare diverse occasioni di incontro e di socializzazione tra le persone anziane (cene tra i camminatori, auto-aiuto nel trasporto, creazione di gruppi spontanei per i lavori manuali a casa). Alcune persone sono di fatto divenute una sorta di “sentinelle di comunità”, connettendo le persone in difficoltà agli operatori del progetto. Si può quindi sostenere che si è contribuito a rafforzare la coesione sociale, il tessuto di relazioni e legami sociali tra i cittadini di Piossasco.

Tra le criticità più rilevanti, come già ricordato, è stata riscontrata una difficoltà a incidere nelle situazioni di maggiore fragilità. Criticità che si connette anche alle difficoltà degli enti a investire in interventi di prevenzione e sviluppo e lavoro di comunità, in quanto spesso “schiacciati” da una cultura organizzativa e sociale che ha un focus di lavoro sul caso singolo, cultura che non prevede di investire risorse umane ed economiche per una prospettiva più a lungo termine rispetto a quella dell’intervento sull’urgenza e sull’emergenza. I partecipanti sono quindi concordi nel ritenere importante continuare a sostenere gli enti, gli operatori, e la microequipe in particolare, investendo sullo sviluppo di comunità e il lavoro in rete. L’intenzione espressa è di continuare a sostenere tutte quelle azioni di socializzazione e di attivazioni di reti di prossimità che rappresentano per molti stakeholder e beneficiari il valore specifico del progetto, “quell’intangibile delle emozioni positive” che si legano alle possibilità di incontro, accoglienza, collaborazione, solidarietà tra persone, operatori, volontari e cittadini nel fare comunità.

Rimane aperta la domanda di un’operatrice: “Come dare un senso a tutto quello che abbiamo fatto e come facciamo a dargli continuità?”. Il progetto è visto infatti come “una creatura fragile”, molto innovativa e fondamentale per un nuovo welfare di prossimità, ma anche a forte rischio, con la necessità di consolidarsi, rafforzarsi, con esigenze di risorse, pensieri e riflessioni che possano contribuire al passaggio da una pratica sperimentale a una prassi riconosciuta e assunta dagli enti pubblici.

La fine del progetto a marzo 2020 si presenta con molte incognite rispetto alla sostenibilità futura. Certamente quest’esperienza ha avuto la forza di espandersi in altri territori limitrofi radicandosi come pratica locale, ha allargato anche il target alla fascia 0-3 anni, nel progetto BEN-NASCO, ha portato la sua testimonianza anche fuori dalla regione Piemonte e dall’Italia, ma permane pur sempre una creatura fragile e bisognosa di energie che la alimentino: patti formali fra gli enti, sostegno economico, ricerca e report che ne continuino a testimoniare il valore.

Alcune domande emergono dal nostro percorso di ricerca e di pratica, il cui tentativo di risposta potrebbe aiutare a rafforzare la sperimentazione, aumentandone le possibilità di una sua trasformazione in prassi consolidata e riconosciuta. Concludiamo quindi con alcuni nodi aperti: Chi è deputato a manutenere la rete, chi si assume il compito di tessere e promuovere il lavoro in rete e con quali operatori? Gli operatori di territorio, svincolati dal prestazionalismo e dai minutaggi chi li sostiene? Chi li riconosce come attori della propria struttura e organizzazione? Può essere mantenuta nel tempo la micro-equipe territoriale? Possono gli attori pubblici e del privato sociale sancire patti di un impegno che non sia solo formale o residuale? Quale ruolo nel tempo per un soggetto terzo, quale quello della nostra Associazione, cha ha contribuito a coordinare i processi e la rete, consentendo di uscire fuori da logiche e diatribe locali? Chi sono gli assenti della nostra rete, quali altre risorse è possibile mobilitare? Come miglioriamo il lavoro sociale di comunità per renderla ancora più partecipe e responsabile? Quale soggetto può accompagnare questo processo di sviluppo nel prossimo futuro?

Sintesi a cura di  Luana Ceccarini,  luana.ceccarini@unito.it, Salvatore Rao  salvatore.rao@live.it

Associazione “La Bottega del Possibile”