Lo status socioeconomico rappresenta uno dei più importanti predittori di morbosità e mortalità prematura a livello globale. Ecco perché bisognerebbe tenerne conto nell’implementazione di strategie e politiche di salute.
È ciò che sostiene un nuovo studio internazionale pubblicato su The Lancet che, partendo dal piano d’azione 25×25 firmato nel 2011 dagli stati membri dell’Oms – mirato a ridurre entro il 2015 il 25% della mortalità dovuta a malattie non trasmissibili – sostiene la necessità di inserire lo status socioeconomico fra i fattori di rischio che generano mortalità. Nello studio è coinvolto, fra gli altri, il Servizio Sovrazonale di Epidemiologia dell’Asl To 3 di Grugliasco.
Lo studio del 2011 prendeva in considerazione sette fattori di rischio: uso di tabacco, consumo di alcool, ipertensione, obesità, diabete, scarsa attività fisica e consumo di sale. Il nuovo studio li prende in considerazione tutti (tranne il consumo di sale), aggiungendone un altro, il basso status socioeconomico, che suggerisce un’impossibilità nel determinare il proprio destino, oltre a una deprivazione di risorse materiali e ridotte opportunità.
In particolare, il nuovo studio utilizza i dati di più di 1,7 milioni di individui provenienti da 48 studi di coorte condotti in sette Paesi, analizzando l’associazione fra status socioeconomico e mortalità prematura, mostrando come gli individui con uno status socioeconomico più basso muoiano di più rispetto a quelli con uno status socioeconomico più alto. Lo studio ha mostrato, inoltre, come lo status socioeconomico avesse un impatto deleterio poco inferiore a quello provocato da tabacco e assenza di attività fisica, capace di provocare una riduzione di 2,1 anni nell’aspettativa di vita degli individui fra i 40 e gli 85 anni.
Lo studio rappresenta la prima indagine su larga scala che mette a confronto, nelle strategie globali di salute finalizzare a ridurre la mortalità prematura, le circostanze socioeconomiche con i sei maggiori fattori di rischio.