Metromontagna: un’opportunità di connessione tra città e montagna
Le proiezioni climatiche relative all’Europa parlano chiaro: nei prossimi decenni l’Europa meridionale, e in particolare l’area mediterranea, sarà sempre più soggetta a ondate di calore lunghe e frequenti. Secondo i dati riportati nel libro Migrazioni verticali. La montagna ci salverà? (a cura di Barbera, Membretti, Tartari, 2024)[1], i giorni di caldo estremo, derivanti da ondate di calore lunghe associate a umidità e temperature elevate anche nelle ore notturne, nell’area mediterranea passeranno da una media di 2 per estate nel periodo 1961-1990 a circa 13 nel trentennio 2021-2050, fino a raggiungere i 40 giorni entro la fine del secolo[2].
In questo scenario, le aree montane stanno attirando nuova attenzione, non solo come possibili rifugi temporanei per chi fugge dal caldo urbano, ma come parte integrante di una più ampia riflessione sulla riorganizzazione dei territori e delle relazioni tra città e montagna. Tuttavia, senza politiche pubbliche strutturate e inclusive, questa transizione rischia di accentuare le disuguaglianze esistenti: solo chi dispone di risorse economiche, reti sociali solide o possibilità lavorative potrà realmente accedere ai benefici offerti da questi territori, lasciando indietro le fasce più fragili della popolazione.
È in questa prospettiva che si inserisce il concetto di metromontagna: un’idea innovativa di connessione attiva e reciproca tra aree urbane e territori montani, che punta a superare la dicotomia tra centro e margine. Non si tratta solo di “rifugiarsi” in montagna, ma di immaginare modelli di convivenza, scambio e welfare territoriale che valorizzino l’interdipendenza tra ambienti diversi.
Ne parliamo con Filippo Barbera, professore di sociologia economica all’Università di Torino ed esperto di innovazione sociale, che ci aiuta a comprendere il significato di metromontagna, le sue potenzialità e le condizioni necessarie per trasformarla in un’opportunità concreta di sviluppo sostenibile e inclusivo.
Cosa si intende per metromontagna?
Metromontagna è una parola composta, un neologismo, che ha coniato qualche anno fa Giuseppe Dematteis, geografo torinese, e che io con Antonio De Rossi abbiamo poi ripreso nel libro Metromontagna. Un progetto per riabitare l’Italia[3], dove vengono considerate diverse forme di rapporto tra città e montagna basate innanzitutto sulla vicinanza spaziale.
Nel nostro paese le montagne sono molto vicine agli insediamenti urbani, e questa vicinanza – che è una prima forma di rapporto – può essere funzionale a modelli di scambio di mercato, di filiere, ma anche a modelli insediativi dove le persone scelgono di modulare la loro vita quotidiana tra montagna e città, quindi senza necessariamente trasferirsi, ma immaginando forme di residenzialità modulari (trasferendosi per lunghi periodi, ma non in modo definitivo).
L’altra forma di rapporto è la città che “entra dentro” la montagna, come la Valle di Susa che presenta infrastrutture con forme tipicamente urbane. L’altro modo è la città che si insedia dentro la montagna, che fa quindi riferimento alla riproduzione di contesti urbani dentro la montagna: città medie, grandi distretti turistici o anche forme di gentrificazione della montagna, perché la montagna non è solo positiva, ci sono anche forme di metromontanità che riproducono le disuguaglianze. Ad esempio, ci sono dei casi in Svizzera dove sono presenti dei veri e propri resort protetti e con tutti i servizi necessari, anche legati alla salute, a costi elevati.
Quindi in sintesi, ci sono forme di relazione che guardano città e montagna come territori diversi ma vicini che si relazionano attraverso forme di scambio di vario tipo che riguardano persone, servizi, beni, ma anche remunerazioni del capitale naturale, dei servizi ecosistemici (l’acqua, l’aria…).
È da sottolineare il fatto che città e montagna sono parte di un unico territorio e andrebbero governate in modo interdipendente pensando a giochi a somma positiva (politiche di tipo non conflittuale, in cui prevalgono la cooperazione e il compromesso) e forme di governo di area vasta che non siano separate in base ai confini amministrativi, ma che governino queste interdipendenze.
Che futuro si prospetta per le città e la montagna in relazione al cambiamento climatico?
Incrociando gli scenari demografici, una popolazione sempre più anziana e fragile, con quelli climatici, ondate di calore e eventi estremi sempre più frequenti le aree montane, in particolare quelle medio-alte, dai 1000 ai 1500 metri, sono potenzialmente delle aree in grado di ridurre, senza eliminarlo ovviamente, l’impatto di questi eventi. Non che il cambiamento climatico in montagna non ci sia, anzi, l’aumento delle temperature è stato anche più elevato in montagna rispetto alla pianura, senza tralasciare i fenomeni come l’erosione. Ciononostante, la montagna può rappresentare una delle risorse per l’adattamento al cambiamento climatico, ovvero la capacità della collettività delle popolazioni, in particolare delle popolazioni fragili, di adattarsi ai cambiamenti.
Si auspica che questo adattamento non venga affidato solo alle risorse private, generando così nuovi fenomeni di disuguaglianza. Sarebbe interessante quindi pensare a programmi più collettivi, ovvero usare la montagna come fonte di welfare sia in termini di istruzione ad esempio per i bambini, poiché la montagna e la natura, hanno una valenza formativa; e sia come modello di welfare integrato territoriale, in quanto le imprese potrebbero inserire pacchetti di offerta montana nel loro secondo welfare.
Bisognerebbe pensare a modelli di governo di territorio di area vasta, dove i diversi componenti di territori complessi fatti di città e montagna trovano delle convenienze comuni.
Qual è, ad oggi, lo stato dell’arte?
C’è qualche esperienza negli Appennini dove ci sono dei paesi che all’interno delle strategie delle aree interne si sono dotati di servizi di accoglienza per anziani over 65. Sono esperienze sparse e ancora poco numerose, ci vorrebbe un po’ di coraggio politico, un po’ di visione e di risorse.
Ad esempio, i centri estivi per i bambini potrebbero essere pensati in chiave intercomunale, ci sono già delle esperienze nel Pinerolese: il comune urbano abilita una serie di comuni metromontani ad accogliere bambini e mettere in pratica attività legate al bosco e esperienze significative dal punto di vista educativo.
La governance dovrebbe essere anche a livello regionale?
La Regione sicuramente qualcosa può fare, il problema è che non ci sono più istituzioni intermedie da regioni a territorio, la città metropolitana idealmente potrebbe farlo..
Le province, come ad esempio Cuneo, potrebbero offrire campi estivi intercomunali in zone come la Valle Stura e la Valle Po, che diventerebbero luoghi di accoglienza per bambini e bambine che magari non si possono permettere 15 giorni di vacanza e sono obbligati a stare ad agosto tutto il giorno in città.
Come riuscire a valorizzare la connessione tra città e montagna? E quali impatti sulla comunità montana?
Chiaramente la montagna ha una capacità di ricezione e di gestione dell’antropizzazione limitata. Infatti si tratta di pensare a usi selettivi, è sbagliata la narrazione dell’“andremo tutti a vivere in montagna”, come è sbagliata quella dell’“andremo tutti a vivere nei borghi”.
Il tema è che bisogna ripensare i confini e i legami tra città e montagna in termini funzionali. Ripensare ai confini degli insediamenti e ai modelli di relazione tra territori diversi, vuol dire guardare non solo alla montagna, ma anche alla ruralità, all’Italia di mezzo, ai piccoli paesi…
Come si accompagna, dal punto di vista della fruizione, un cambiamento culturale orientato alla cura del territorio?
Io credo che i cambiamenti culturali più efficaci e anche più gestibili dal punto di vista dei tempi e dei comportamenti, avvengono quando abiliti un certo nuovo comportamento e un certo modo di interagire; quindi, considerando la metromontanità come interazione tra città e montagna e tra persone nei diversi stadi del loro ciclo di vita che usufruiscono in modo diverso della montagna.
Le culture nascono attraverso la messa a disposizione di opportunità per fare altre esperienze, in altri luoghi e con altre persone, in questo modo si modifica anche la cognizione, la rappresentazione del territorio e le relazioni che si instaurano con esso. Quindi, cambiamenti culturali attraverso i cambiamenti nelle opportunità di agire.
Abilitando i contesti al fine di rendere possibili modalità diverse di utilizzare i territori e i servizi, nascono anche certe idee sulle persone e sulle cose.
I cambiamenti nelle opportunità di agire, in un certo modo, sappiamo abbastanza facilmente come abilitarli, se dovessimo scrivere un programma sulle colonie intercomunali, lo faremmo abbastanza facilmente.
Se invece dobbiamo cambiare le culture delle persone è più complicato. Quindi se si cambiano i comportamenti e si abilitano certi modi di agire, successivamente ricadono sugli immaginari, sulle forme culturali, sui valori, sulle priorità delle persone.
Il sacro, sostiene il sociologo Émile Durkheim, nasce dalla danza totemica: se metti le persone a ballare intorno a un totem queste persone diventano un gruppo. Se tu abiliti una certa configurazione dello spazio e modi di essere delle persone-nei-luoghi, ciò può essere generativo di nuovi modi di essere o di fare, dai legami sociali alla cura dell’altro.
A cura di Giulia Caruso, Centro di Documentazione per la Promozione della Salute (DoRS) ASL TO3- Regione Piemonte e Silvia Pilutti, Prospettive ricerca socio-economica s.a.s.
silvia.pilutti@prospettivericerca.it
[1] Barbera F., Membretti A., Tartari G. (A cura di). 2024. Migrazioni verticali. La montagna ci salverà? Donzelli editore
[2] I giorni di caldo sono definiti tali quando la temperatura massima si discosta da più di due deviazioni standard dalla media.
[3] Filippo Barbera e Antonio De Rossi (a cura di), “Metromontagna. Un progetto per riabitare l’Italia”, Donzelli, 2021.